È morto Milan Kundera. Viva Milan Kundera. Davvero. Forse, senza enfasi, lo si può definire l’ultimo, grande scrittore del Novecento europeo. Il suo capolavoro è, probabilmente, L’insostenibile leggerezza dell’essere, ma non sottovaluterei nemmeno i saggi su L’arte del romanzo. Tra i tanti spunti che ci ha offerto, prenderò qui rapidamente in esame la metafisica della merda.

 

L’insostenibile leggerezza della merda. Il romanzo più celebre di Milan Kundera parla, in larga misura, di merda. Perché, certo, c’è la corrida amorosa tra Tomáš e Tereza; ci sono le divagazioni filosofico-musicali su Nietzsche e Beethoven; c’è la Primavera di Praga. Ma, dietro e al di sopra di tutto questo, c’è la riflessione sul Kitsch. Ovvero: sulla negazione dell’esistenza della merda.

 

Kitsch e metafisica. Intendiamoci: Kundera sapeva bene che, nel linguaggio di tutti i giorni, la parola tedesca «Kitsch» ha preso a indicare altre cose. Il suo romanzo, però, non parla della bruttezza di certi manufatti pseudo-artistici. L’insostenibile leggerezza dell’essere parla delle questioni ultime. Dunque, da buon funambolo del linguaggio quale era, Kundera andò a ripescare il significato metafisico del Kitsch e del suo essere, appunto, negazione della merda.

 

We are the world, per fare un esempio. Uno stuolo di vip che celebra cantando l’ormai avvenuta unificazione del genere umano sotto il segno della giustizia e della libertà: sembra la rappresentazione plastica della Grande Marcia dell’Insostenibile leggerezza dell’essere. Quella canzone fu l’antesignana dell’odierno sistema dei Testimonial e, al tempo stesso, la rappresentazione plastica del Kitsch kunderiano.

 

Il professor Keating, per farne un altro. In una celebre scena de L’attimo fuggente, il professor Keating – ovvero: il modello di un’infinità di docenti di ultima e penultima generazione, perlomeno in Italia – pronuncia il sostantivo: «Escrementi». Lo fa per dire che i manuali su cui studiano i suoi alunni sono inutili (se non dannosi) e che, invece, bisogna stare a sentire lui che si mette in piedi sulla cattedra. La cosa interessante, però, è che, per denigrare un metodo di insegnamento rispetto a cui si pone come alternativa, Keating usi proprio la parola: «excrement». Il professor Keating, insomma, è Kitsch.

 

I social, per farne un altro ancora. Le vite, sui social, sono più o meno tutte perfette e, se non sono perfette, lo sono a causa di un’imperfezione che serve a far risaltare il valore di chi è costretto ad affrontare una materia escrementizia che non gli appartiene. Ben prima che arrivassero Mario Draghi e il PNRR, anzi, i social media sono stati diffusori della parola «resilienza», che in fondo non è altro che un modo per profumare (metaforicamente) le feci. Come dire: puoi scegliere tra il mangiare con stoica fermezza questa minestra (scatologica) e un bel tuffo dalla finestra. L’importante è che non pensi che esistano altre alternative.

 

Milan Kundera e Tommaso Labranca. Negli anni Novanta, il geniale e compianto Tommaso Labranca sostenne che il Trash è una forma di sublime mancato o, per dirla più chiaramente, un’imitazione uscita male. Un po’ come chi vuol atteggiarsi a eroe romantico snocciolando frasi prese dai Baci Perugina o riproducendo, armato di sudore, canottiera e ciabatte, gli atteggiamenti di Rett Butler. Forse che siamo vicini al Kitsch del nostro Kundera? Ci si può ragionare sopra, anche se Labranca consigliò a Calasso di lasciar perdere lo scrittore ceco per concentrarsi su Fiorello.

 

Il Kitsch è invecchiato? Qualche giorno fa, l’amico Francesco De Napoli mi ha fatto notare che, oggi, la parola «merda» è tra le più citate. Forse, addirittura, figura tra quelle che vengono esibite. È difficile dargli torto, in effetti, e forse è un segno del fatto che il Kitsch, insieme a L’insostenibile leggerezza dell’essere, sta accusando un po’ gli anni. Un tempo il potere si legittimava sulla metafisica, ovvero sulla negazione della merda. Oggi, viceversa, il tardo capitalismo non pretende di essere il migliore o il più giusto dei mondi possibili. Si accontenta, semplicemente, di essere il meno invivibile. Quello in cui, insomma, basta non far troppo caso alla merda che ci circonda*.

 

* Ripensando alla metafora della finestra/minestra, citata a proposito dei social, vien da pensare, in effetti, a Salò di Pier Paolo Pasolini. Anche lì c’erano escrementi che, di fatto, venivano ingurgitati dai personaggi: emblemi di una civiltà dei consumi che – come dico a proposito dell’invecchiamento del Kitsch – non vuole essere perfetta, ma vuole essere solo quella in cui le nostre feci sono condite al punto da sembrare commestibili.

Tommaso Di Brango