Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. De Gregori non aveva ancora composto la sua celebre leva calcistica quando Claudio Di Pucchio, al debutto in serie A, trasformava con calma olimpica a pochi minuti dal termine dell’ultima sfida di campionato (stagione 66/67), il rigore che consentiva alla Lazio di accorciare le distanze dalla scudettata Juventus al vecchio Comunale di Torino. Una rete che però non servì a garantire la permanenza dei biancocelesti nella massima serie. La seconda retrocessione della squadra capitolina si consumò in una giornata surreale che vide i bianconeri prevalere al fotofinish sull’Inter, caduta inopinatamente a Mantova.

Una sorta di 5 maggio “ante litteram” che rivisitiamo con uno dei protagonisti di quegli ultimi 90 minuti al cardiopalma. Di Pucchio vanta ancora oggi un primato strano nel mondo Lazio: una presenza e un gol con la maglia biancoceleste. Ma l’ex calciatore di Sora (squadra della quale molti anni più tardi avrebbe fatto le fortune nelle rinnovate vesti di allenatore) ha un altro, grandissimo merito: fu lui a segnalare alla dirigenza laziale dell’epoca il nome di un certo Giorgio Chinaglia, calciatore ancora sconosciuto ai più ma che di lì a poco avrebbe portato la Lazio nell’élite del calcio italiano.

Ignoto forse alle nuove generazioni, Di Pucchio sarà sicuramente conosciuto da chi denuncia un’anagrafe più vistosa. L’ex centrocampista laziale, classe ’44, ci racconta, non senza un pizzico di nostalgia, il suo rapporto agrodolce con la Lazio (in tutto circa un lustro scandito da numerosi prestiti), snocciolando con sorprendente memoria aneddoti figli di un calcio lontano anni luce da quello odierno, quando in campo si scendeva in undici contati e i cambi erano ancora al di là da venire. Un football antico e fascinoso, quando la domenica scattava la caccia al biglietto con le interminabili file al botteghino. Anche se quel famoso e drammatico 1° giugno del 1967 era un giovedì…

Un po’ strano giocare di giovedì. D’altra parte in quella giornata tutto fu molto strano… Il suo ricordo?

“Sì, dice bene. L’ultima partita del torneo fu rinviata al giovedì successivo per consentire all’Inter di Mazzola di disputare la finale di Coppa dei Campioni a Lisbona (poi persa, ndr) contro il Celtic di Glasgow. Ricordo benissimo l’allenamento di rifinitura svolto al glorioso Filadelfia. Ero su di giri dopo che il mio grande amico Castelletti mi confidò che sarei stato nell’undici titolare, che avrei esordito in A. La gara, giocatasi in un Comunale stracolmo, non fu esaltante sotto il profilo agonistico anche perché la Juve non confidava in un passo falso dell’Inter, impegnata a Mantova. In avvio di ripresa la sfida si accese improvvisamente quando giunse la notizia dello svantaggio nerazzurro, complice un grossolano infortunio del portiere Sarti. Il pubblico sospinse la Juve alla vittoria, maturata anche grazie alla nostra inferiorità numerica per l’infortunio di Marchesi. Bercellino e Zigoni sentenziarono in pochi minuti la nostra retrocessione in serie B, mentre la Juve si cuciva sul petto il tricolore nonostante il mio rigore finale”.

Ci racconti quel particolare momento…

“Ero teso, è innegabile. Del resto ero al debutto e al cospetto di una squadra forte come la Juve, in quella platea così importante era impossibile non tradire l’emozione. Ma nel momento fatale non esitai a prendere il pallone e a sistemare la sfera sul dischetto. Il nostro rigorista designato era Marchesi uscito anzitempo per un brutto infortunio al braccio. Restammo stoicamente in dieci e si presentò, a circa dieci minuti dal termine, l’occasione della vita. Pagni, Morrone e gli altri compagni – segno della fiducia che nutrivano nei miei confronti – mi lasciarono calciare dagli undici metri. In quell’istante mi vennero in mente le parole dell’amico dell’altra sponda giallorossa, Francisco Ramon Lojacono, che mi consigliava di non scegliere nessun angolo ma di calciare forte e centrale. Così feci battendo Anzolin. Purtroppo non bastò a evitare la retrocessione, però mi tolsi una gran bella soddisfazione personale ripagando la fiducia di Maino Neri, che mi stimava profondamente tanto da paragonarmi in piccolo al sommo Rivera. ll giorno dopo i giornali (su tutti Corriere dello Sport e Guerin Sportivo) furono prodighi di complimenti nei miei riguardi. In realtà il mio esordio in A sarebbe dovuto avvenire alcuni mesi prima…”

Cioè?

“Era il 4 novembre 1966, il giorno della famosa alluvione di Firenze. Quella domenica eravamo impegnati al San Paolo contro il Napoli di Zoff e Sivori. Trascorremmo la vigilia a Caserta dove condividevo la stanza con il grande attaccante Vito D’Amato. Ero molto ottimista circa il mio impiego nella delicata sfida contro i partenopei, invece il nostro tecnico Mannocci mi preferì in extremis Mari. Mi spiegò che era meglio rinviare il mio debutto al mercoledì successivo a Roma dove avremmo affrontato, in Mitropa Cup, la Stella Rossa di Belgrado. A Napoli splendeva il sole a differenza di quanto avveniva in Toscana: perdemmo 1-0 in uno stadio stracolmo, a decidere la sfida fu uno splendido gol di Omar Sivori. A fine gara patron Lenzini scese negli spogliatoi rinnovando la fiducia al nostro allenatore, ma l’imponderabile stava per accadere”.

Ci spieghi meglio…

“Il lunedì successivo scesi al bar vicino alla mia abitazione di via Oslavia, non lontana dalla sede di allora di via Col di Lana. Mentre facevo colazione i miei occhi caddero sul titolone in prima pagina del Corriere dello Sport : “Mannocci silurato”. Si era consumato il clamoroso colpo di scena. Mi precipitai subito a Tor di Quinto dove Bob Lovati ci confermò che il tecnico livornese non era più l’allenatore della Lazio. L’allenamento fu cancellato e il mercoledì di Coppa fui spedito nuovamente in tribuna”.

Prima ha menzionato patron Lenzini: che tipo era il sor Umberto?

“Una persona straordinaria dotata di un grande cuore. Mi voleva un bene dell’anima, fu una sorta di secondo padre per me. Mi ricordo che spesso ci incrociavamo allo Stadio dei Marmi prima delle sfide domenicali. Io ero puntualmente convocato ma, non essendoci allora la lunga panchina di oggi, finivo altrettanto puntualmente in tribuna. Così mi capitava non di rado di bere un caffè con lui prima del fischio d’inizio. Aveva una vis comica fuori dal comune. Mi ripeteva spesso: tu non giochi perché ti ho voluto io…”

Forse in pochi sanno che soprattutto grazie a lei un certo Chinaglia approdò alla Lazio…

“Con Giorgio nacque subito una simpatia reciproca. Ci conoscemmo al CAR di Orvieto nell’estate del ‘67, poi la nostra amicizia si consolidò a Roma, alla Cecchignola, dove la mattina ci allenavamo insieme. Era il periodo in cui Chinaglia passò dalla Massese all’Internapoli. Lui mi considerava un punto di riferimento importante, ne colsi subito le straordinarie doti di attaccante di razza. Abbiamo condiviso molti momenti insieme, era un buono ma dalla personalità forte, a volte diventava aggressivo e prepotente. Su Giorgio potrei scrivere un libro. Un giorno andai nella sede di via Col Di Lana scortato proprio dal futuro Long John che presentai ai dirigenti dell’epoca (tra cui Vona, Angelini e Gabriella Grassi) e a qualche tifoso presente. Dopo ne parlai con il neo tecnico Lorenzo, consigliandogli di seguire quel giovane di belle speranze. A mia insaputa, il tecnico della Lazio andò a visionarlo a Salerno durante un’amichevole della Nazionale di serie C. Tornato a Roma, mi disse negli spogliatoi, davanti agli altri compagni, che era rimasto molto colpito da un certo Nanni della Viterbese, mentre Giorgione non gli aveva fatto una grossa impressione. Alla fine della stagione approdarono entrambi alla Lazio. Qualche anno più tardi Giorgio mi richiamò per portami alla Lazio, lo ringraziai per la stima, ma declinai l’invito”.

A distanza di anni come è il suo rapporto col mondo Lazio?

Mi sento ancora, ogni tanto, con Giancarlo Oddi, per il quale sono stato una sorta di primo procuratore. In me si manifestò precocemente l’intuito di osservatore-selezionatore. Seguivo all’epoca la Primavera della Lazio dove spiccavano giovani di talento come Lorenzetti e Oddi. Giancarlo era militare a Sora, aveva circa vent’anni, e rimase vincolato alla Lazio senza contratto. Dissi al Commissario straordinario, che era il senatore Senese, di portare in prestito al Sora Girardi, Volpi, Gagliardi, Galimberti e Oddi. Quest’ultimo pur non gradendo troppo la destinazione sorana disputò in serie D un grande torneo. Parlai col presidente della Massese – dove ero stato parcheggiato in prestito – Vieri Rosati che non esitò a prendere in prestito Giancarlo dalla Lazio. Anche in Toscana, in serie C, lui fece cose egregie. Tornato poi nella capitale, si consacrò definitivamente in biancoceleste”.

Veniamo all’attualità, come giudica la nuova Lazio?

“E’ una squadra un po’ umorale, a volte si concede cali di concentrazione inspiegabili.  Quello appena iniziato è il terzo anno sulla panchina di Maurizio Sarri, tecnico che stimo molto. La Lazio è un’ottima squadra, il secondo posto dello scorso anno non è stato casuale. Peccato per questa partenza deficitaria, riscattata dal grande colpo di Napoli. Sono arrivati giocatori importanti, ho l’impressione che i biancocelesti faranno cose straordinarie anche quest’anno al netto dell’impegno in Champions, torneo che fatalmente toglierà tante energie. Sono molto fiducioso”.

Lei ha legato il suo nome al Sora, la sua città, attesa domani, al debutto, contro una formazione blasonata come la Sambenedettese: che cosa pensa del nuovo Sora targato Campolo?

“Sono sincero, ultimamente non sto seguendo tanto la squadra bianconera reduce dal record di vittorie dello scorso anno in Eccellenza. Ho l’impressione, comunque, che la squadra allestita dal patron Palma possa ben figurare in un girone difficile, che annovera diverse squadre importanti, ma non impossibile. Non mi stupirei se il Sora ottenesse anche qualcosa di più di una tranquilla salvezza, i presupposti per far bene ci sono, il pubblico è tornato a riempire il Tomei. La gara d’esordio di domani rievoca per il sottoscritto ricordi agrodolci, ho vestito la maglia della Samb, in serie C1, nella stagione ’69-’70, quando fui ceduto in prestito dalla Lazio: era una grande squadra che non riuscì, tuttavia, a compiere il salto di categoria. Alla squadra rossoblù mi legano tanti aneddoti. Ricordo la gara di Coppa Italia di C, nell’ormai lontano 1993, quando sulla panchina ospite siedeva Zibì Boniek. Il giorno dopo, nonostante la sconfitta di misura, mi telefonò in sede Beppe Materazzi, allora allenatore del Bari, riempiendomi di elogi: era rimasto colpito dal gioco del Sora”.

Lei ha allenato anche un aquinate doc come Guido Veglia…

“Sì, due volte, a Sora ed Isernia. Ricordo che venni ad Aquino insieme al compianto ds Fiorini per convincere il bomber ad accettare la nostra proposta. Mi piaceva, era un talento, peccato, aveva i mezzi per arrivare molto più lontano…”

Prima di congedarla, una istantanea sul calcio attuale…

“Rispetto ai miei tempi è cambiato tutto. Penso al numero delle sostituzioni, al break durante la partita, e potrei citare tanti altri esempi. Inoltre il football, a mio avviso, è diventato sempre più una disciplina “femmina”, non mi entusiasma più come una volta”.

Libero Marino