L’appuntamento è al Circolo canottieri Aniene, di cui da anni è socio, struttura elegante che si affaccia sul Tevere, non lontana dallo stadio Olimpico e da casa sua. Vicina si avverte, ogni tanto, l’eco di una pallina da tennis nei sottostanti campetti attigui alla piccola piscina.

E’ un bellissimo mercoledì di ottobrata romana, in una Capitale trafficata e baciata da un sole quasi estivo. Dino Zoff mi anticipa di qualche minuto, alle 9 e 15 è già lì ad aspettarmi. Gli è sempre piaciuto arrivare prima, così come faceva su quel rettangolo verde, teatro di tante gesta e fucina di mille ricordi, al cospetto di grandi campioni.

Il monumento del calcio italiano (l’unico calciatore nostrano ad aver vinto Europei e Mondiali), classe 1942, risponde con il consueto aplomb alle mie domande. Ne viene fuori un’oretta godibilissima che restituisce la cifra autentica del Dino nazionale. Campione di calcio, straordinario uomo di sport, ma anche e soprattutto un inno alla sobrietà, all’equilibrio e alla misura, merce rara nel mondo di oggi.

Come e dove è iniziato tutto?

“Nella mia terra, a Mariano del Friuli, un paesino di poche anime. Già dai tempi delle elementari, insieme ai miei compagni, correvamo dietro a un pallone. La tv ancora non c’era, ingannavamo il tempo così in quel piccolo angolo di una Italia che faticosamente rialzava la testa dopo la guerra. Nonostante tutto, la mia fu un’infanzia felice. A casa mia vigevano regole semplici, ero davanti al classico bivio: o imparavo il mestiere, o tentavo la gloria con il calcio. E’ andata bene”.

Udine e Mantova, prima di approdare ai grandi palcoscenici…

“Sì, fu una palestra importante di cui conservo bei ricordi. La mia definitiva consacrazione si registrò a Napoli. La società partenopea mi strappò in extremis al Milan di Rocco che, nel frattempo, si assicurò tra i pali Cudicini. All’ombra del Vesuvio trascorsi un lustro importante, la città era molto passionale, assaporai l’ebbrezza della maglia azzurra fino a vincere, nel 1968, l’Europeo. Prologo alla chiamata della Juventus”.

Con cui avrebbe vinto praticamente tutto: il suo rapporto con Gianni Agnelli?

“L’avvocato era una persona straordinaria, mi chiedeva sempre consigli sui calciatori, era animato da una grande curiosità, si cibava sempre di football. Durante gli intervalli delle sfide puntualmente piombava nei nostri spogliatoi spronandoci senza tuttavia mai alzare la voce. Il tempo di sorseggiare un caffè e poi guadagnava di nuovo la tribuna. Un fuoriclasse”.

Quanto  è cambiato il ruolo del portiere rispetto ai suoi tempi e chi preferisce oggi tra i pali?

“E’ rimasto lo stesso. Il portiere deve conservare il suo compito fondamentale, che è quello di parare. Poi se è bravo anche con i piedi, ben venga, è un valore aggiunto. Quanto al panorama attuale, possiamo vantare gente come Donnarumma, protagonista della vittoria dell’Europeo, Meret, Provedel e tanti altri”.

L’attaccante che più l’ha messa in difficoltà durante la sua lunga carriera?

“Pulici. L’attaccante del Torino era un autentico spauracchio, durante il derby della Mole si trasformava, era capace di grandissime giocate”.

I giocatori più forti contro i quali ha giocato?

“Ce ne sono tanti. Su tutti Sivori, Pelè, Cruijff, Beckenbauer e Albertosi. Dalla lista tolgo Maradona: l’asso argentino era fuori concorso, è stato il più grande di sempre”.

Segue ancora il calcio?

“Sì, sono sempre innamorato, sebbene sia cambiato molto rispetto ai miei tempi. Non mi piacciono certe sceneggiate in mezzo al campo, si perde troppo tempo a svantaggio dello spettacolo che il football deve regalare. Alla fine “carta canta”, contano i numeri. Una squadra che gioca bene ma non vince, per me, non ha molto senso. Non sopporto, inoltre, certe plateali esultanze, il calcio è uno sport che significa, prima di tutto, rispetto dell’avversario. Valori come onestà e lealtà sono venuti meno”.

Qualità rare incarnate dal suo grande amico Scirea…

“Gaetano era di una classe e intelligenza uniche. Eravamo molto simili caratterialmente, ci capivamo con uno sguardo. Condivise con me quella magica notte post Madrid. Eravamo appena diventati campioni del Mondo, ma ai balli e ai canti preferimmo il silenzio della nostra camera d’albergo. Ci fecero compagnia un pacco di sigarette e una bottiglia di vino rosso. Decidemmo che non era il caso di “sporcare” un momento così bello”.

Spagna ’82 e quella parata sul brasiliano Oscar: è stata la più bella della sua carriera?

“Più bella non so, sicuramente fu un intervento molto difficile e decisivo, la cruna dell’ago dove passammo per approdare alla semifinale. Neutralizzai quel pallone velenoso proprio sulla linea di porta, furono istanti concitati, se respingevo il pallone erano pronti i brasiliani sottomisura a ribadire in rete. E il pari ci avrebbe condannato…”

Lei parava i pericoli e Rossi si svegliava dal torpore laureandosi capocannoniere…

“Il merito fu del grande Bearzot, che credette nel sottoscritto e in Paolo, ingiustamente bersagliato da certa critica. Fu la rivincita per il bomber di Prato. Paolo ed Enzo, due grandi uomini, due persone perbene”.

Tornando a oggi: qual è la sua favorita per lo scudetto?

“Siamo ancora agli inizi, ma credo che le due milanesi abbiano qualcosa in più rispetto alle altre. Sarà, a ogni modo, un campionato molto equilibrato e avvincente”.

Parola di Zoff

Libero Marino