Se tutti i danesi fossero ebrei è un’opera teatrale di Evgenij Evtušenko. Inizialmente, il suo autore ritenne di non doverla pubblicare e si limitò a metterla a disposizione di alcuni (pochissimi) circoli teatrali. Uno di questi fu quello di Daniel C. Tood, negli Stati Uniti, negli anni Novanta. Un altro, all’inizio degli anni Duemila, fu il CUT teatrale di Cassino, diretto da Giorgio Mennoia. Anima dell’operazione fu Francesco De Napoli, che di Evtušenko era amico fin dagli anni Ottanta. Tra gli intellettuali del Lazio meridionale, la cosa passò quasi inosservata.

Comunque sia, l’editore Lamantica di Brescia, nel 2022, ha deciso di pubblicare Se tutti i danesi fossero ebrei, attingendo alla preesistente resa in italiano, parimenti inedita, della compianta Evelina Pascucci – da sempre appassionatissima traduttrice di Evtušenko –, affidando la cura al giovane e valente Lorenzo Gafforini e l’introduzione al già menzionato Francesco De Napoli, che torna a occuparsi dell’amico russo a quasi un lustro dalla sua scomparsa. L’esito è stato un libro di importanza storica: la prima edizione ufficiale di un inedito di Evgenij Evtušenko, il «poeta del disgelo» che omaggiò Krusciov nell’URSS di Breznev e si recò da Nixon due anni prima dello scandalo Watergate. La Compagnia “I dadi truccati”, diretta da Caterina Brunelli, ha già messo in scena il tutto nell’ambito delle manifestazioni di “Brescia-Bergamo 2023”, capitali italiane della cultura. Tra gli intellettuali del nostro territorio, però, ancora una volta, quasi nessuno mostra di accorgersene.

Ad ogni modo, Lorenzo Gafforini ha detto, in un’intervista, che l’introduzione di Francesco De Napoli è il miglior saggio critico prodotto su Evtušenko in Italia. Probabilmente ha ragione ma, da vecchio amico e conoscitore dell’opera del poeta cassinate, mi permetto di dire che, oltre che un saggio critico, lo scritto in questione è anche una vera e propria dichiarazione di poetica. È vero, infatti, che De Napoli, nelle circa cento pagine di Il poeta del disgelo e il valore della cultura – questo il titolo dell’introduzione –, disseziona con grande rigore critico Se tutti i danesi fossero ebrei e, più in generale, il profilo di Evtušenko. È anche vero, però, che, mentre si legge questo scritto, si ha a più riprese l’impressione che, scavando nell’opera e nella personalità dell’amico scomparso, il poeta cassinate stia indagando nei meandri della sua stessa opera e personalità.

La cosa, del resto, si spiega alla luce delle affinità tra i due. Se tutti i danesi fossero ebrei è, infatti, l’opera con cui Evtušenko sfida la civiltà postmoderna e postideologica, ovvero quel mondo che De Napoli ha messo sistematicamente alla berlina coi suoi epigrammi e con diari “in pubblico” come Animatore d’ombre. Il primo, mettendo in correlazione la prigionia della principessa danese Leonora Cristina e i patimenti di una ragazza ebrea tornata arditamente in Danimarca durante il secondo conflitto mondiale, ha mostrato il ripresentarsi ciclico della violenza a una civiltà che, avendo chiuso i conti con la Guerra Fredda, si illudeva di essere ormai libera dagli spettri del passato; il secondo si è rivolto a quello stesso mondo storico mettendone a nudo le doppiezze e il cinismo, ovvero demistificando la sua pretesa armonia .   

Evtušenko e De Napoli, insomma, sono stati coscienze inquiete di una civiltà che si pensava sazia e soddisfatta, e tutto questo non poteva non emergere nell’introduzione scritta dal poeta cassinate. Il loro dissenso nei confronti del presente, però, è andato ben al di là di una semplice denuncia delle sue storture o di una giovenaliana indignatio – che pure non è mancata – di fronte all’esaurirsi di esperienze storiche passate. Mentre l’Occidente capitalista, celebrando la sconfitta dell’Unione Sovietica, si inebriava con le teorie sulla fine della storia (F. Fukuyama), Evtušenko e De Napoli, pur nella diversità dei loro stili e delle loro prospettive, affermavano che la storia, lungi dall’essere finita, non era, in realtà, mai neanche iniziata.

La costante presenza della violenza, in Se tutti i danesi fossero ebrei, non sta infatti a indicare – come De Napoli osserva – che questa è l’orizzonte destinale dell’uomo. Al contrario, l’esigenza di ricorrere agli stessi soprusi e alle stesse sopraffazioni poste in essere dall’uomo delle caverne mostra, secondo Evtušenko, che gli uomini, in realtà, stanno ancora vivendo la loro pre-istoria, ovvero che, con buona pace del pur generoso Immanuel Kant, devono ancora uscire dallo «stato di minorità» da cui l’illuminismo aveva promesso di tirarli fuori.

Lo stesso discorso può essere fatto per De Napoli. Lui, certo, alla satira ha sempre affiancato la memoria – si pensi alla Trilogia dell’infanzia – e al riso sarcastico ha sempre accostato la rievocazione di un passato perduto. Ma cosa, concretamente, è andato perduto, col passato a cui De Napoli guarda? La risposta potrà apparire paradossale, ma in effetti è la seguente: il futuro. Le lotte dei braccianti lucani, l’eterno riproporsi della “questione meridionale” e, nondimeno, l’impegno antifascista del padre partigiano sono, per lui, momenti in cui emerge una tensione al futuro che il nostro tempo, schiacciato com’è nell’eterno presente degli Smartphone, sembra aver dimenticato.

In questo sta, per Evtušenko come per De Napoli, il valore della cultura: nell’aprire prospettive impensate e rendere plausibili scenari inaspettati. Anche quelli che evocano, quasi utopisticamente, l’ipotesi di costruire una civiltà capace di bandire soprusi, violenze e ipocrisie. Si può ben dire, insomma, che, più che un libro, questa prima edizione mondiale di Se tutti i danesi fossero ebrei contiene la trasposizione scritta di un’amicizia nata e cresciuta all’ombra di un mondo cinico. E speriamo che, stavolta, nel Lazio meridionale qualcuno ci faccia caso.

Tommaso Di Brango