Gino De Cesare se n’è andato dieci anni fa e noi aquinati non possiamo non accorgercene. Così, senza pretendere di dire tutto, cercherò, qui, di ricordare almeno qualcosa di quel che è stato.

Una vita e i racconti. Ci sono uomini che, a un certo punto, si trasformano nei racconti che se ne fanno. Nei “si dice” della gente e nei “ricordo quella volta” degli amici. In genere sono i migliori. Noi uomini tendiamo a raccontare le cose che ci hanno segnato. E Gino era uno che il segno lo lasciava.

Pino Daniele e i Pooh. Così, tra i “si dice” e i “ricordo” di chi l’ha conosciuto, spuntano spesso fuori anche i grandi della musica italiana. Pare, infatti, che Gino abbia avuto la possibilità di suonare con loro. Magari anche di ridimensionarli un po’. Le luci della ribalta, però, sono fatte per chi le ama e Gino, si sa, era un uomo schivo.

La bellezza e la chitarra. Suonare, del resto, non era, per lui, un’occasione per lanciarsi in un’esibizione. Quando Gino aveva tra le mani una chitarra, piuttosto, sembrava ingaggiare un corpo a corpo con l’armonia delle note. Anche i suoi allievi lo raccontano: lui diceva di studiare la musica giorno e notte perché, forse, solo così avrebbe potuto capire da dove spuntava fuori tanta bellezza. Uno così, chiaramente, del successo non sa che farsene.

Piazza San Tommaso. Tutto questo cominciò negli anni Sessanta, in piazza, nella pompa di benzina dove Gino, giovanissimo, lavorava. All’epoca le automobili circolavano ma, tutto sommato, tra un rifornimento e l’altro, avevi il tempo di suonare. Accadeva, così, che Gino prendesse la chitarra e, tutt’intorno, si formasse un gruppetto di amici. Perché dove c’è musica, si sa, il tempo sembra un po’ meno pesante.

Via Risorgimento. Ma Gino non era solo una mano che stringe il manico della chitarra. Ricordo, per esempio, di quando lo incontrai in via Risorgimento. Era domenica, pioveva e, mentre tornavo a casa illudendomi di essere al riparo grazie a un ombrellino da quattro soldi, lo salutai. Lui sgranò gli occhi: “Guardati la schiena! Vai a casa!”. Temeva che prendessi un accidente. Effettivamente ero zuppo. Il paese, una volta, era una grande famiglia e lui lo sapeva.

Via Roma. Negli ultimi tempi, lo vedevo spesso passeggiare lungo via Roma con un libretto tra le mani. Non ricordo di che si trattava: forse un libro di preghiere, forse una copia del Vangelo. Mio padre, che lo considerava un fratello, me l’aveva sempre descritto come un’anima in cerca di Dio.

I grilli parlanti. Anni fa, mentre Gino suonava in piazza, un mio vecchio conoscente disse che, tutto sommato, la cosa non lo entusiasmava. Mancava sempre qualcosa, ma non si capiva bene cosa. Roba che, a ripensarci oggi, l’unica cosa che capisco, nel discorso di quel tale, è la difficoltà a dare un senso compiuto alle sue parole. Non è facile, infatti, dire cosa mancava a Gino. Forse perché non gli mancava proprio niente.

Tommaso Di Brango